ROBERTO VILLA ART

Pier Paolo Pasolini

Il fiore delle mille e una notte

Incontrai Pier Paolo Pasolini nell’autunno del 1972, a un dibattito a Milano. Alla fine del convegno l’avvicinai per chiedergli se avesse tempo e voglia di parlare del problema del linguaggio e della semiologia nel cinema. Mi guardò stupito, sorpreso che qualcuno con una fotocamera al collo potesse parlare di quegli argomenti. Mi disse che era interessato, aggiungendo però che a breve sarebbe partito per il Medio Oriente. “Ma se vuoi – mi disse – avverto la produzione che c’è un fotografo sul set…”.  Per un freelance abbandonare il lavoro per un tempo indeterminato significava interrompere tutti i contatti in essere. Ma fu una scelta vincente. C’è un ritratto iconico in cui Pasolini posa, caso unico nella sua storia, con una mano sulla cinepresa e con l’altra tiene il ciack del film. Lo avevo colto mentre guardava verso di me, allora gli avevo dato il ciack e gli avevo detto che volevo fare un ritratto.  Lui mi disse “Sì vabbè, ma è una finzione”, e quando risposi che lo è anche il cinema, memore delle nostre discussioni, lui sorrise e io scattai. Qualche mese dopo il rientro in Italia gli portai una selezione di diapositive. Quando chiuse il book mi disse “Hai realizzato un film in cui tu eri il regista e io l’attore“.

Immagini da un tempo perduto

Pier Paolo Pasolini mi ha detto  “Voglio fare Cinema inconsumabile che, per capirlo, occorra vederlo e rivederlo molte volte. Un cinema di poesia e, come la poesia, si rilegge e se comprende meglio i significati”. Pasolini ha fatto un cinema molto difficile e, anche ne “Il fiore delle mille e una notte”, sono presenti continui momenti che necessitano di decriptazione nonostante la loro apparenza semplicemente narrativa. Pier Paolo Pasolini mi ha offerto la possibilità di conoscere il Medioriente e la sua estrema ricchezza culturale. Nel 1973 l’impianto sociale non era stato privato dell’autenticità da eventi estranei. Nelle fotografie si può vedere sia Pasolini al lavoro sia il contesto in cui si muoveva durante le riprese, come l’aereo che trasportava i materiali per il film e doveva atterrare nel deserto perché mancavano le piste. Le immagini non riguardano solo il backstage del film, ma anche la morfologia ambientale e la antropologia del luogo. I ritratti non sono catturati all’insaputa dei soggetti, le persone si lasciavano fotografare. C’era disponibilità. La gente era autentica, genuina, sorrideva. Persino le ragazze, con i loro vestiti che rappresentavano un elemento problematico, avevano gli occhi sorridenti di chi si lascia fotografare, cosa che oggi non accadrebbe. Quello che ho documentato è un mondo perduto.

Backstage: Pier Paolo Pasolini uomo e regista

Il viaggio per arrivare ad Aden, dove mi sarei incontrato con la troupe, è stato degno di un film di  Indiana Jones e anche i giorni di ripresa sono stati decisamente pesanti da affrontare. Talvolta ci alzavamo alle quattro e rientravamo alle quattro del mattino seguente. Dovevamo sopportare sbalzi di temperatura da -12 a + 56 gradi e ci spostavamo con mezzi tragicomici, come i Dakota risalenti alla guerra. Quello che mi ha consentito di lavorare con grande facilità è stato senza dubbio il rapporto instaurato con la troupe. Un giorno durante le riprese inciampai su un piccolo treppiede nascosto da un tappeto, facendo cadere una lampada. “Che peccato – disse Pasolini – veniva così bene!” Ma subito una voce con accento romanesco intervenì dal fondo: “Niente dottò, una lampada s’è bruciata, adesso la sostituiamo, nun c’è problema!” Ero diventato uno di loro. D’altra parte anche Pasolini non ha mai fatto parti da regista furibondo, non l’ho mai visto arrabbiato. La massima offesa che gli è scappata di bocca, rivolta ad uno della troupe che aveva fatto cadere un fondale durante una ripresa è stata “Che salame!”. Di quella ridente esclamazione ho l’immagine istantanea, autentica, di un Pasolini ridente mentre lancia il pesante epiteto.

ROBERTO VILLA ART

“E’ bene tacere di ciò di cui non si sa!”

Ludwig Wittgenstein

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